Intervista a Guido Carminati
di Maurizio Casagrande (2004)
1) Guido Carminati è l’identità fittizia che ti sei scelto per il tuo secondo battesimo, quello letterario: che cosa si nasconde sotto tale pseudonimo? Forse un doppio speculare dell’autore alla pari del Didimo Chierico di foscoliana memoria? E “fedele” fino a che punto all’originale?
Avrei voluto rinunciare a rispondere a questa domanda perché uno degli scopi dello pseudonimo era quello di sparire, ma ho visto che è qualcosa di piuttosto utopistico (insieme con te sparisce anche l’opera...). E poi la tua domanda mi offre l’occasione di esprimermi su una questione importante per me.
Vi sono diversi motivi per cui ho scelto uno pseudonimo. Il primo è che l’autore non esiste, o meglio l’autore, il suo nome, appartiene all’opera. Inoltre io non mi identifico con l’opera né l’opera vorrebbe identificarsi con me. Siamo due insieme coincidenti in un punto ma entrambi assai più vasti e parzialmente l’uno all’altro insondabili.
Ciò che si fa sempre meno in quest’epoca di “miseri ii” è quello, da un lato, di demarcarsi dall’opera, (già definirsi scrittore è accettare l’attuale divisione del lavoro che parcellizza gli uomini, li riduce a homuncoli, in questo caso, di “privilegiati” del sapere o della cultura), dall’altro di scomparire nell’opera. L’opera deve bruciare l’individuo e la sua anagrafe. Non demarcarsi, non scomparire è volgare (perché l’ego è volgare e questo gli antichi lo sapevano bene) e, ciò che più conta, errato, poiché realmente l’opera, così come ogni altro prodotto, non appartiene all’individuo ma alla collettività e alla sua storia. È uno degli infiniti frutti della specie e quindi della natura. La questione omerica diventerebbe oziosa, da questo punto di vista; che Omero abbia scritto l’Odissea e l’Iliade o che sia stato un attento compilatore e cucitore di canti, o più mani abbiano intessuto i due poemi, essi appartengono all’uomo e alla civiltà greca e ne sono il suo frutto. Tanto più un’opera è buona tanto meno è di qualcuno.
Inoltre scrivere è per me un esercizio ascetico e perciò antiegoico: devi diventare trasparente, è questa trasparenza che trasforma l’esperienza individuale in esperienza collettiva oggettiva e in linguaggio universale. Se c’è qualcosa di buono non è la ristrettezza individuale e soggettiva ma quello che ciononostante l’individuo ha strappato di universale e di oggettivo.
2) Contar (Il Ponte del Sale, Rovigo, 2003, pp. 222) rappresenta la tua prima pubblicazione. Si tratta di un’opera che assumendo le forme e lo stile dei poemi cavallereschi (dalla Chanson de Rolande al Don Chisciotte di Cervantes) traspone tale sistema semantico/simbolico nel cuore del 2000, con uno scarto che recupera e insieme rinnova: con quali risultati, e quali finalità ti proponevi nell’accingerti a tale operazione?
Credo che la nascita e in buona parte lo sviluppo di una qualsiasi opera artistica sia qualcosa di abbastanza misterioso, perciò trovo assai scorretto parlare (e addirittura in fase di parto!) tanto di finalità quanto di operazione. E’ nato un bambino, ora, a posteriori, fattosi intanto lui ragazzo, quello che si può cercare di capire è da chi ha preso e a chi assomiglia, qual è il suo carattere e la sua fisionomia. Vi è un altro aspetto della domanda che non condivido: parlare tout court di assunzione di forme e stile e di trasposizione del sistema semantico/simbolico dei poemi cavallereschi è totalmente fuorviante. Vi è una cornice, vi è un costante rimando a certi moduli, ma vi è anche tutt’altro, vi è semmai l’idea dell’erranza e l’idea del poema che trovano nella traccia del passato una loro continuità, soprattutto parodica.
Una certa ripresa parodica del Quijote – che è a sua volta opera parodica – potrebbe essere un modello per la costruzione dell’antieroe moderno. Il Quijote è la parodia del mondo feudale ormai sulla via del tramonto, travolto dal mercantilismo e dalla volgarità borghese e, insieme, l’ultimo nostalgico canto per la perduta nobiltà cavalleresca. La follia di Don Quijote è rimanere ancorato al mito, alla poesia, alla nobiltà, in un mondo di osti, di mercanti e di mezzane. Il riscatto di Quijote dal precipitare del mondo è tutto spirituale. Ma nel Don Chisciotte vi è un’amarezza che non c’è in Contar. Puc e Cup sono dei folli, anticivili, antiborghesi non solo nello spirito ma anche in qualche modo, nell’azione. La vittoria degli erranti del Contar è data dal fatto che non guardano all’indietro, ad una civiltà perduta e irrecuperabile, ma alla sorgente della vita, alla natura, a qualcosa di perenne. È vero, anche in Contar vi è nostalgia per l’età dell’oro, ma gli erranti non guardano solo al passato, guardano avanti, non solo prima della civiltà ma contro la civiltà, dopo la civiltà e anzitutto ritrovano un’identità e un’integrità che non può mai essere perduta per sempre: quella con gli altri esseri viventi e la terra: gli animali, le piante, le pietre, l’aria, qualcosa che nessun tramonto di civiltà può distruggere. L’itinerario iniziatico dell’homoh errante Puc Puc è questo: verso la madre terra attraverso l’erranza (la stessa ma invertita) che da quella terra ci esiliò. Accompagnato, anzi guidato fraternamente dal cavallo Cup Cup (poiché come è detto nel Contar, solo un animale o una pianta può guidarti a ciò, non un uomo): un cammino verso la riconquista del suo vero essere. Sia chiaro, non si tratta di un troppo banalizzato (e impossibile) ritorno alla natura, ma di una ben più profonda reintegrazione sistemica del vivente umano nella natura, qualcosa di assolutamente impensabile all’interno dell’odierno sistema sociale ed economico. Nel Contar, naturalmente tutto ciò è svolto in chiave mitica.
Però questo cammino, quest’errare, è anche nella cultura e nella civiltà attraverso lo spettro linguistico e simbolico. La parodia, lo è anche in senso musicale, è cioè un rifacimento, un omaggio. Così vi sono rifacimenti e omaggi: all’amor cortese, alla blasonerie, alla prosa barocca e a quella del quattrocento, al catalogo (da Omero in poi rivisitato da tutti gli scrittori faceti: da Pulci a Rabelais, da Sterne a Joyce), alla cavalleria errante, allo Zen, al Cinismo (di cui Carminati è stato studioso), e altri ancora (alcuni occulti: quasi dei rebus volutamente nascosti). Diceva Ugo Dettore a proposito dell’Eufuismo: “Così l’Eufuismo, non meno del Marinismo e del Gongorismo, diviene la prima espressione di un linguaggio moderno, fondato cioè su elementi sostanzialmente culturali e rievocativi in uno spirito che si svolge per rapidi accostamenti di idee e di reazioni, per ricordi, per moti autocritici, con improvvisi passaggi dal comico al drammatico, al patetico al razionale puro.” In questo senso Contar è un’opera barocca.
3) Peculiare in Contar mi risulta altresì la confluenza e la fusione armonica di due opposti filoni letterari caratterizzanti la nostra storia: quello aulico e colto che va dall’Ariosto a Cervantes, includendo pure le varianti comico/giocose del Baldus o del Morgante, e l’anima più genuinamente popolare che s’incarna nella forma del “filò”, il racconto a braccio nelle campagne venete al tepore di una stalla: “Contar”, infatti, è un racconto anche in questo senso, una “conta”, quasi una saldatura – che soltanto il dialetto poteva realizzare – fra i rami di un unico fiume che per secoli sono stati innaturalmente separati: cosa ne pensi?
Certo, sarebbe interessante. Quella di Contar è una lingua mista anche nella direzione, a volte sembra nascere da un crepitar di filastrocca, altre da una lingua letteraria che aspira all’oralità, al canto. Il dialetto è solo occasionalmente usato puro e forse non è un caso. È vero che il dialetto ha questa grande potenzialità espressiva ma è vero che uscire dal carcere dell’italiano per rattrappirsi nel dialetto è una posizione di arroccamento in difesa. Il dialetto in Contar è usato come grimaldello per deflagare la lingua per ricondurla al suono, al rumore, al gesto, non meno delle altre lingue romanze, del greco, del latino, dei linguaggi tecnici, dei neologismi, ecc. Esplodere la lingua e ridonare una gioia epifanica al dire.
4) A prima vista il tuo poema sembrerebbe lontano anni luce dalla sensibilità dei moderni, in realtà la consonanza sussiste ed è profonda: penso all’intensità della tua sperimentazione linguistica che ti ha consentito di concretizzare un felicissimo pastiche amalgamando, in una lingua di pura fantasia – il “pucuppiano” – l’italiano nei suoi vari registri, il latino, lo spagnolo, perfino i dialetti. Ma le novità del tuo libro non si esauriscono in questo, non è vero?
Vi è un punto notevole di convergenza tra una certa tradizione dei volgari antichi e la sperimentazione moderna e contemporanea. Il pucuppiano o cupucchiano (e lo si rivendica nel Ciclo de gli Amanti de la Glotta) è una lingua non normalizzata e che osteggia la normalizzazione, una lingua sperimentale, in fieri, e in continua trasformazione. Ora, i volgari, e va usato il plurale anche per le varianti locali, erano una lingua del genere. La stessa parola era scritta in tre modi diversi nella stessa pagina (e non per sbadatezza), era una lingua che cercava se stessa, come ogni lingua nascente, l’aurora della lingua. E non solo per il Trecento. La vittoria parziale dell’umanismo latino, condusse a notevoli sperimentazioni nel volgare anche nel quattrocento, l’Ypnerotomachia Poliphili (per restare alla prosa) è uno di questi esempi, o, in direzione inversa, gli esperimenti arditissimi di Pulci nelle epistole, ma ce ne sono altri e di segno assai diverso, il discorso sarebbe lungo. Le lingue del Contar (non c’è solo il cupucchiano o pucuppiano con le sue varietà, ma anche il synsynbai con le sue varietà, il parabolar pneumatico, di cui arvorier ed erbesco sono esempi vegetali, l’aromiano parlato dalla farfalla Isabella, il glossolilalico, il mumblante, lo yogico-circense del Discipulo, il vespertillesco, l’hinahomohanico, il pieresco ecc.) si collocano in una situazione simile, ma non verso l’aggregazione ma verso la disgregazione, rappresentano non l’ aurora ma il tramonto. La nascita del volgare segna anche l’origine della classe borghese e il preludio allo stato nazionale, il pastiche di certe sperimentazioni del novecento e odierne ne configura bene la fine. Si notano analogie poiché anche la disgregazione rompendo i precedenti modelli, ritrova molecole vive e palpitanti, nascenti (per questo ho usato prima il termine epifanico). Così, in quest’ordine caotico, affiorano le lingue antiche insieme alla pubblicità, le iscrizioni preistoriche e la scrittura abbreviata dei telefonini, di più affiora un neonato rinominare balbettando le cose, quell’elemento nascente, aurorale e dionisiaco anche. Parlo di ordine perché ci vogliono redini ancora più ferree per dominare un materiale aggredito dal caos come quello odierno.
Una piccola apparente digressione, che meriterebbe ben altro approfondimento: è possibile che la lingua letteraria enucleando la crisi delle nazioni dell’Occidente avanzato (cioè in regime di capitalismo tardo-imperialista) preluda, a modo suo, e anticipi la fine della lingua nazionale. Ciò avviene deflagrando la lingua. Il ritorno ai dialetti rappresenta – così come il “comunalismo” – un fenomeno che mostra insieme al bisogno di un’altra lingua la regressione a una lingua madre e non compromessa (per così dire). D’altronde, prima di riaggregarsi ci si deve disgregare e la disgregazione porta, all’inizio, al ritorno di quelle unità parziali e momentanee, arroccate in difesa, che sono il “municipalismo”, il “localismo”, il dialetto materno; fenomeni tuttavia transitori e che rappresentano tutto fuorché una salvezza. L’italiano, così come le altre lingue europee, potrebbe diventare, in un non lontano futuro, dialetto, ma ciò avverrà non per la forzata scelta di una lingua comune ma naturalmente, (l’esperanto ha fallito non perché non avesse le potenzialità di una lingua ad ampio spettro ma perché nato artificialmente dallo sforzo di qualcuno e non nel crogiuolo della realtà storica). Può darsi che – per un po’ – l’inglese (o meglio l’anglo-americano semplificato) divenga una lingua comune per una parte del mondo, ma ciò non è affatto certo, la lingua troverà una sua strada, è difficile anticipare come e quale. La letteratura – volente o nolente – è dentro tutto ciò. Essere nella crisi, significa scorgere la prospettiva rivoluzionaria che essa necessariamente enuclea. Ben venga dunque la crisi del romanzo e della lingua letteraria, così come benvenuta è la crisi del Capitale, della dittatura della merce, crisi che due infami guerre mondiali tra fronti imperialisti hanno cercato di rinviare ma che inevitabilmente si ripresenta e ogni volta in modo più acuto e devastante.
All’ultima parte della tua domanda posso solo rispondere constatando che Contar è senz’altro nel solco della sperimentazione odierna anche per le tematiche e il tumultuoso groviglio di simboli che dal tempo e dallo spazio la mondializzazione ci offre.
5) Il puro suono e il silenzio sono gli estremi tra cui oscilla l’intero sistema di segni in Contar: lo leggo come continuità rispetto alla tradizione di tanta musica colta del 900, da Berio e Nono fino alla dodecafonia e al minimalismo d’oltreoceano. Ma che valore vi attribuisci nel momento in cui tale dialettica di dissonanze si traduce nella pagina scritta?
Mi piace molto che si avverta questo: le due supreme afasie: il puro suono e il silenzio.
Il discorso per la musica sarebbe lungo ma è utile almeno accennarlo, a costo di essere schematico e anche un po’ rozzo. La disintegrazione tonale alla fine dell’ottocento ha condotto non solo alla ricerca di nuovi sistemi (come la dodecafonia), quindi a ripensare i fondamenti strutturali dell’organizzazione dei suoni, ma anche necessariamente alla riscoperta del suono stesso. Ecco il perché dell’interesse per il timbro da Debussy in poi, che da accessorio, decorativo, diventa sempre più fondante, (il suono è un molteplice, questo molteplice è il suo spettro), si pensi all’atomismo di Webern e poi a Scelsi, la cui ricerca, come dice Castagnoli: “fu quella di scomporre il suono nel suo spettro, e non invece quello di comporre (cum-ponere) suoni in relazione fra loro.” E Schoemberg aveva già scritto nella sua Harmonielehre: “l’altezza è una dimensione del timbro. Il timbro è dunque il tutto, l’altezza una parte di questo tutto, o meglio, l’altezza non è che il timbro misurato in una sola direzione.” Ciò che verrà ripreso dai musicisti contemporanei dell’Itineraraire: “non sussiste alcuna ragione, se non culturale, sostengono, perché si debba distinguere il timbro dall’armonia; tra i due esiste in realtà, un continuum come analogamente, c’è continuità tra ritmo e intensità, ritmo e frequenza.” (cf. A. Orcalli, Fenomenologia della musica sperimentale, p.197). Il suono dunque come fenomeno complesso e, in certo qual modo, irriducibile ai singoli parametri, alla loro somma o al loro rapporto estrinseco. E in parallelo con la riscoperta del suono si ritrova il suo sostrato, il silenzio. L’uso musicale, strutturale del silenzio è un’altra grande riscoperta dell’ultimo secolo. Analoga risalita ai fondamenti hanno fatto le altre discipline artistiche del ‘900, si pensi, per fare un solo esempio, a Punto linea superficie di Kandinskij, all’architettura neoplastica e a Van Doesburg. E qualcosa di simile è successo anche alla scienza, nella fisica quantistica, non vi sono più cose, le particelle subatomiche si comprendono solo come trame di relazioni, complessi di eventi, interconnessioni, o in biologia ad Harrison che dal meccanicismo e dal concetto di funzione passa al sistemismo e a quello di organizzazione ecc. Tornando alla musica, da un lato il puro suono e il silenzio sono dunque stati ritrovati dalla musica e riscoperti come suo fondamento ancestrale, dall’altro allo schematismo e alla semplificazione logica dei parametri musicale si è sostituita l’interpretazione sistemica del fenomeno sonoro. Qui si collocano meravigliosamente pur nella loro grande diversità le opere dei grandi maestri: Webern, Schoenberg, Berg ma anche Varese, Cage, Scelsi, Maderna, sino a Grisey e all’Itineraire.
Dell’ultima parte della tua domanda do una risposta in due versioni.
1) Meglio di tutto risponderebbero alcuni racconti. Ora me ne vengono in mente tre: Expetorazioni haraphone e sillabiche e mutismi sconcertativi de Puc Puc de no facile interpretatione e bene si più tosto ardua no dozzinal diagnosi seguii da eruzion spurgativa gazlinguistica in sismica sympatheia panico geosimbiotica, per la magna satisfation del magnanimo nostro equo Cup Cup (XIV° del Ciclo dit de la Samanta), dove l’afasia di Puc è spiegata come un’ “intasamento” del dire e dove il ritorno alla parola si manifesta come un’eruzione vulcanica; Laifus Limaica Ostion (XVII° del Ciclo lindo de i Misteri ierofanici arborologi) racconto misterico e votivo dove prevale la glossolilalia (composto spiegato nel Ciclo della Glotta); Misteriose patologie taumaturgiche e terapeutiche del pucuppiano: el mumblante, lo balbettante, lo glossolilalico (IX° del Ciclo de li amanti de la Glotta) dove le patologie del linguaggio vengono investite di una carica terapeutica, poiché svelando l’impotenza o la presunzione del linguaggio aprono le porte al suo superamento.
In tutto il Contar l’esplosione, l’orgia, la festa ora caotica ora ordinata della lingua è preceduta e seguita dall’afasia o per troppo dire o perché la parola si trasforma in suono, in musica: nel sistema semantico dei vespertilli dell’Antro delle Ninfe, senso e suono non sono divisi ne uniti in modo accidentale: quando parlano suonano e orchestrano (e quando sono in amore, senza saperlo, i loro ultrasuoni incidono di segni la roccia). Lo stesso accade agli hinahomohanih (l’episodio è in lavorazione), gli uomini preistorici, la cui parola è insieme suono, musica e danza (pittografia vivente). Non vi è divorzio tra suono e senso, ma anzi entrambi sposandosi danno vita alla musica. Vi è qui un aspetto satirico: il presuntuoso dire umano (che tutto pretende di definire e classificare) è superato dagli animali con i loro gesti e il loro silenzio (si veda l’elogio della balbuzie e anche il dialogo con il mumblista nel conto citato, oppure il dire delle pietre in De como le piere comunicavola e dadovero tutor comunica VII° del ciclo dei Misteri).
2) Ecco un apologo e un koan zen.
Questo è l’apologo: “…Quando Kauna tornò in Giappone, l’imperatore sentì parlare di lui e gli chiese di predicare lo Zen a edificazione sua e dei suoi sudditi. Kauna rimase in silenzio davanti all’imperatore. Poi tirò fuori un flauto dalle pieghe della sua veste e suonò una sola, breve nota. Inchinandosi profondamente scomparve”.
Ora ecco il koan: “Qual è il suono di una sola mano?”
Ecco, il Contar è un parentesi tra la breve nota di Kauna e il suono di una sola mano.
6) E, in particolare, quanto ha inciso sulla tua opera letteraria la tua formazione musicale e la pratica concertistica con gruppi d’avanguardia?
Molto. Ma l’improvvisazione, il suono e l’ascolto mi hanno insegnato e mi insegnano a vivere. Suonando ho imparato ad ascoltare e l’ascolto mi ha insegnato la pienezza di quei due estremi di cui giustissimamente parlavi: il suono e il silenzio. Tutta la musica non è che interrogazione di questi estremi, il resto è retorica (Varese diceva che quando compare la melodia entra in scena la chiacchera, il pettegolezzo…).
Un altro aspetto, questo non intuitivo ma razionale, della musica (ma anche dell’architettura) che ha influenzato il mio lavorare alla scrittura è quello strutturale. Anzi, all’inizio troppo. Ho centinaia di pagine manoscritte in cui cerco di trasporre i parametri musicali a quelli letterari. Ho scritto racconti con i procedimenti classici della variazione seriale per esempio; altri in cui la dimensione aleatoria è ingabbiata in un massimo di struttura. D'altronde la poesia provenzale antica (Arnault Daniel per tutti) usa procedimenti di sviluppo tematico e variazione attraverso l’inversione, la retrogradazione semplice o incrociata, l’inversione retrograda, i quadrati magici ecc., che poi sono quelli della musica fiamminga (e che si trovano in Bach) e che verranno poi ripresi dai musicisti della Scuola di Vienna. Più difficile è trovare esempi simili nella prosa. Sono stato ossessionato per anni dalla struttura, ma ho cominciato a scrivere meglio quando ho spremuto il succo di questi studi, prima ne ero irretito. Tuttora ho dei piani di lavoro che tengono in gran conto la struttura (palese e occulta), ma senza esserne impiccato.
Credo comunque che quegli studi siano stati una palestra importante perché mi hanno aiutato a forzare la letteratura, a guardarla dal punto di vista di altre discipline, penso al concetto di dislocation come lo intende Peter Eisenmann : “il mio lavoro riformula il linguaggio, o sposta (disloca) il linguaggio dall’esterno, dalla fisica, dalla biologia, dalla teoria delle catastrofi, dalla matematica…” (in “Controspazio” 1/’92, p.13) da questo punto di vista credo che un piccolo risultato sia riassunto in un saggio che Zevi mi invitò a scrivere per la sua rivista (“L'architettura - cronache e storia”, anno XLI, 471 n.1 gennaio 1995): Le sette invarianti architettoniche in letteratura, dove le invarianti che Zevi individua e deduce dalla poetica e dalla tecnica delle avanguardie architettoniche del novecento trova degli esempi di applicazione in letteratura.
7) Un ulteriore componente che s’impone all’attenzione del lettore è il valore di vero e proprio trattato sulla lingua e sullo stile che Contar possiede, soprattutto all’interno della terza sezione: vorresti riassumerci la tua posizione in proposito?
Nel Ciclo de gli amanti de la Glotta vi è la parodia di una grammatica. La morfologia, la sintassi, la particolarità stilistiche ecc. mi offrono l’occasione di affabulare sull’affabulazione, si tratta di un metatesto (così come De lo texto de lo nostro contar che tratta della quaestio pucuppiana e del tramandamento del testo e a cui sto lavorando da alcuni anni) dove il testo è commentato dal testo stesso. La lingua riflette lo spirito dell’opera, emerge l’erranza radicale, la natura, l’amore (nel senso della φιλιη empedoclea), il carattere dei personaggi. Raccontando la lingua si racconta l’opera.